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lunedì 15 gennaio 2018

Movie Addicted: Voldemort - Origins of The Heir. Recensione

Buonsalve a tutti miei carissimi lettori e, soprattutto, amanti di Harry Potter. Come sicuramente saprete, sabato 13 Gennaio è stato rilasciato il film FAN-MADE interamente dedicato a Voldemort. Ovviamente una fan come me non poteva perderselo e quindi l'ho guardato subito e...





Io avevo aspettative molto alte per questo film, lo aspettavo da tantissimo tempo, anche perché Voldemort è sempre stato uno dei miei cattivi preferiti e ho sempre trovato la figura di Tom Riddle super affascinante, ma mi tocca ammettere, con grandissimo dispiacere, che questo film è stata una
delusione totale.

Purtroppo farò SPOILER quindi se non lo avete ancora visto fermatevi qui e rimandate la lettura a dopo la visione!
Per prima cosa voglio fare i complimenti agli attori (quasi tutti italiani tra l'altro) che hanno recitato davvero in modo egregio, quasi quasi ho apprezzato più loro che attori professionisti che si vedono in TV in questo periodo negli show fantasy (*cof cof* Shadowhunters *cof cof*). Sono stati davvero bravissimi, soprattutto perché non è affatto facile recitare in inglese, una lingua che non è la propria e nonostante l'accento italiano, se la sono cavata molto bene. Poi mi sono piaciuti tantissimo anche gli effetti speciali, sono stati fatti davvero bene per avere comunque un budget ridotto. Molto belli anche i costumi e la scenografia... Ma allora perché non mi è piaciuto? Per la SCENEGGIATURA.
Come ho scritto anche all'inizio, per me questo film è completamente bocciato a livello di trama perché non hanno fatto altro che trasporre una scena che la Rowling aveva scritto nei libri e che nei film non era stata inserita, aggiungendo alcuni personaggi di contorno giusto per allungare il brodo.
La storia inizia con Grisha McLaggen, discendente di Godric Grifondoro e personaggio non canonico, quindi inventato appositamente per questo film, che si reca in Russia per recuperare il diario di Tom Riddle e qui cade prigioniera degli Auror sovietici. E io mi chiedo, perché la Russia?? Non mi pare venga spiegato, ma vabbè... Fatto sta che Grisha, sotto effetto del veritaserum, inizia a raccontare dei suoi anni ad Hogwarts e di come lei, Tom e i discendenti di Tosca Tassorosso e Priscilla Corvonero (anche loro personaggi del tutto NON canonici) si siano incontrati e abbiano formato una sorta di "club" per trovare gli oggetti appartenuti ai quattro fondatori della Scuola di magia e stregoneria. E questa è la prima cosa che mi ha fatto storcere il naso... come è possibile che tutti e quattro i discendenti dei fondatori siano ad Hogwarts nello stesso periodo e che guarda caso si siano incontrati e vadano pure d'accordo? proprio loro tra centinaia di studenti?. Non so, mi è sembrato un'enorme coincidenza, ma sarei stata disposta a passarci sopra se fosse stata l'unica cosa ad infastidirmi, ma non è stato così. Ho trovato, infatti, che ci siano stati alcuni momenti in cui quello che succedeva andava proprio contro quello che aveva sempre scritto la Rowling; la scena della materializzazione, ad esempio, che loro giustificano dicendo che anche se sono a scuola, si trovano nella stanza delle necessità e che quindi lì dentro ci si può

materializzare... e io allora mi chiedo come mai quel genio indiscusso della Rowling abbia scritto un intero romanzo su un Draco Malfoy intento a far funzionare l'Armadio svanitore per far entrare i mangiamorte, se tanto nella stanza delle necessità ci si può materializzare? Che senso avrebbe avuto l'armadio, allora? Perché Harry ha dovuto usare il passaggio dietro al quadro che c'è alla Testa di Porco per entrare nella stanza delle necessità se tanto c'era Hermione che li aveva fatti materializzare tutti e tre per tutto il settimo libro?? Mi sembra un po' una contraddizione.
Ma andiamo avanti... la storia, poi, continua con Grisha che racconta all'Auror sovietico di come Tom abbia ucciso Hepzibah Smith e di come sia entrato in possesso della coppa di Tassorosso e del medaglione di Serpeverde, ed in pratica questa scena non è affatto nuova, ma, come ho già detto, era stata già raccontata da JK, quindi non hanno introdotto niente di sconosciuto. Insomma, alla fine il russo si convince della veridicità di Grisha e decide di darle il diario, dopo che lei gli ha parlato degli horcrux, e come mai lei sa degli horcrux? Ma perché altri non è che Tom Riddle che aveva assunto le sembianze della ragazza, da lui uccisa in precedenza. A questo punto il sovietico gli chiede come ha fatto a mentire, nonostante fosse attaccato ad una fiala di veritaserum e come aveva fatto a trasfigurarsi in un'altra persona e lui semplicemente risponde che ci sono magie più potenti di altre e io ero tipo ---> Ah ok. Cioè dai, Piton ci ha fatto una testa enorme per sette libri sul fatto che una goccia di Veritaserum ti costringe a dire tutta la verità senza che tu neanche te ne accorga e questo, con un intero flacone, è riuscito a mentire così bene? Stessa cosa vale per la trasfigurazione... Non mi pare che sia scritto da nessuna parte che ci si possa trasformare in altre persone senza pozione polisucco.
Senza parlare del fatto che uno dei personaggi sapeva perfettamente che era stato Tom ad aprire la camera dei segreti e ok che poi è morto, ma posso credere che fosse l'unico a saperlo e che non lo avesse detto ad altri? Le voci sarebbero dovute girare, no? Posso credere che per ben 50 anni nessuno mai ha neanche sussurrato che era stato Tom? Mi sembra strano.
Adesso magari voi direte che mi sto aggrappando a delle piccolezze, ma per quanto mi riguarda non lo sono affatto perché in un film, sia pure fan-made, ambientato nell'universo di Harry Potter, certe cose devono essere coerenti, anche se si tratta di queste piccole cose.
Ed infine, il titolo: Voldemort - Origins of The Heir, letteralmente Voldemort - Le origini dell'Erede, titolo che fa presagire una storia su come Tom sia diventato Voldemort, magari sui suoi anni ad Hgwarts e su come, piano piano, sia scaturita in lui l'idea dell'immortalità e la paura della morte e come sia maturata l'idea degli Horcrux... E qui non c'è niente di tutto ciò, non hanno fatto altro che raccontare qualcosa che già sapevamo e non c'è niente di male in questo eh, ma mi aspettavo altro, visto il titolo. E anche i personaggi mi sono sembrati tutti abbastanza inutili ai fini della storia.
Ho letto di gente che spera che la Rowling lo faccia diventare canonico, ma io spero vivamente di no perché vorrebbe dire che la Rowling ha iniziato a drogarsi.
Eh niente, questa era la mia opinione a riguardo, so che sono stata molto critica, ma avevo davvero
bisogno di sfogarmi.
Sicuramente, dal punto di vista tecnico, il film è un capolavoro, però, per quanto mi riguarda, un film può vincere l'oscar per gli effetti speciali, ma se poi non ha una trama interessante, per me sarà sempre bocciatissimo. E credetemi se vi dico che mi dispiace tantissimo perché avevo aspettative altissime e non vedevo letteralmente l'ora, facevo anche il countdown dei giorni e poi delle ore e dei minuti che ci separavano dall'uscita! E mi dispiace anche per i ragazzi che ci hanno lavorato perché loro hanno fatto davvero un bel lavoro, proprio a livello tecnico. Non mi aspettavo che fosse al livello dei film e sarei stata anche una stupida ad aspettarmi una cosa del genere, però speravo in qualcosa in più... Secondo me si era creato troppo hype per questo film e forse per questo sono rimasta delusa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Voi che ne pensate? Vi è piaciuto? So che non sono stata l'unica a cui non è piaciuto e sono molto curiosa di sapere il vostro parere ;)
 
 
 
 
 
 
 
 
*Ginny*
 
 


sabato 1 ottobre 2016

Movie Addicted. Recensione "Mommy" di Xavier Dolan

Salve a tutti.
Il film di cui leggerete la recensione oggi è "Mommy", di Xavier Dolan (che ne è anche il produttore e lo sceneggiatore). 
 
 
 
 
 
 
 

Diane (detta "Die") Despres, vedova di 46 anni, donna indipendente ed autonoma, apparentemente sicura di se
e spesso strafottente, abbandonata dal marito e da chiunque altro, bella, ma segnata dal tempo e dai pensieri, si reca presso il centro di recupero per riportare a casa Steve, il figlio quindicenne affetto dalla sindrome da deficit di attenzione e iperattività ad esso affidato dopo la morte del padre e nel quale, le dicono, non può più rimanere per aver provocato un incendio che ha recato gravi e permanenti danni ad un piccolo paziente. Inizia così una nuova vita per madre e figlio che si trasferiscono in una casa diversa da quella in cui hanno sempre abitato decisi a ricominciare da zero. Steve manifesta subito, sin dai primi secondi che passa fuori del centro, la sua natura di ragazzo ribelle, scontroso, suscettibile, arrabbiato col mondo e talvolta persino con la madre, unica persona che ancora ama, presentandosi immediatamente per quello che è anche con i vicini di casa, che ne osservano i comportamenti quasi intimoriti e ne ascoltano le urla inferocite con terrore. Steve, però, non è solo un adolescente scapestrato e maleducato, così come appare a chi non lo conosce. Steve è un ragazzo che soffre, un ragazzo che non controlla se stesso e la rabbia che porta dentro e quando questa rabbia repressa prende del tutto il sopravvento sulla sua mente e sul suo corpo, ecco che iniziano le urla, i gesti violenti, le parole che feriscono. In seguito ad un litigio con la madre, durante il quale Steve tenta persino di soffocarla, dopo che lei si è rifugiata in uno sgabuzzino per proteggersi delle grinfie del figlio arrabbiato e lui si è, per un gesto involontario di Diane, ferito ad una gamba durante la lotta, ecco che entra in scena Kyla, moglie, madre e professoressa che ormai non lavora più a causa di un problema di balbuzie, ma soprattutto donna buona e generosa che con la sua dolcezza e determinazione riuscirà a regalare qualche momento di gioia e di conforto alla disastrata famiglia Despres e che, con forza di volontà e passione, farà da insegnante a Steve mentre sua madre si dedicherà alla ricerca di un nuovo lavoro, dopo essere stata licenziata. 
Da questo momento in poi inizieranno le drammatiche avventure di Kyla e Diane che raccontano il tentativo di queste due donne di occuparsi nel migliore dei modi di un ragazzo fuori controllo, di tenerlo a bada e di farlo vivere come qualunque altro suo coetaneo, preparandolo con pazienza alla futura vita che, non appena sarà pronto, dovrà affrontare e accompagnandolo, passo dopo passo, con mille sforzi e sacrifici, in quello che, sperano, possa essere un soddisfacente, per quanto lungo, processo di guarigione. 

Eppure non bisogna credere che il film sia esclusivamente incentrato sulla figura di Steve e che tutti gli altri personaggi esistano solo in funzione sua: "mommy" racconta più storie, tutte di grande sofferenza, che partono come storie separate (nel momento in cui i personaggi vivono distanti) e che finiscono poi per fondersi (quando Steve e Diane si ricongiungono e Kyla entra a far parte delle loro vite) fino a diventare un'unica grande storia di tre persone provate dalla vita che cercheranno di darsi forza a vicenda: Steve è quell'anello di congiunzione che permette al regista di raccontare non solo la sua storia, ma anche e soprattutto la storia di due grandi donne e delle loro due famiglie in crisi.
"Mommy", così come suggerisce lo stesso titolo del film, parla di Diane, madre rimasta sola, che sacrifica se stessa e concentra tutte le sue energie sul figlio per cercare, con amore e comprensione, di offrirgli la vita che merita e al tempo stesso di curarne la malattia, del rapporto spesso violento ma in fondo caratterizzato da un sentimento molto intenso, e spesso anche morboso, che lega il figlio a lei in modo quasi malato ed eccessivamente affettuoso, e di Kyla, anch'essa madre, che capiamo non vivere in perfetta armonia con la sua famiglia e che si avvicina a Diane e Steve quasi per allontanarsi da essa, perché, all'interno della casa in cui vive, sembra non stare affatto bene: continue sono le immagini in cui la vediamo scambiare sguardi silenziosi ma eloquenti con il marito dal quale sembra voler scappare senza che però ne riveli mai il reale motivo. 

I protagonisti di questo film sono personaggi sofferenti, che vivono una vita che non li soddisfa, accomunati solo dalla ricerca costante di libertà e della voglia disperata di serenità. Il film stesso,  per il modo in cui è diretto, ha come primo intento quello di trasmettere emozioni forti, in particolare ansia ed angoscia, ma soprattutto quel senso di oppressione che provano Steve, Diane e Kyla. Non è casuale, quindi, da parte del regista, la scelta di utilizzare un'inquadratura claustrofobica quadrata (1:1) che costringe a mostrare una sola persona per volta (perché un'inquadratura stretta che mostra i personaggi singolarmente, meglio si adatta alla volontà di Dolan di approfondire la loro storia individuale. Per un film che indaga la psicologia umana, il regista ha voluto che la telecamera fosse il più possibile vicina ai volti dei personaggi perché essi stessi, più delle parole che pronunciano e dei gesti che compiono, attraverso un solo sguardo, potessero raccontarsi). I personaggi vivono in un mondo che è stretto per ognuno di loro. Steve urla sempre la parola "libertà" (pochissime volte e per pochi secondi l'inquadratura viene allargata e ad allargarla è lo stesso Steve in alcune delle tante scene in cui urla proprio quella parola, spalancando le braccia nel tipico gesto delle persone che si sento davvero libere, a testimonianza di come l'inquadratura voglia riflettere e trasmettere il senso di prigionia che grava sui personaggi. Subito dopo, infatti, già dalle scene successive, quando finisce il momento di euforia e felicità, essa torna nuovamente ad essere stretta.) perché non si sente affatto libero, perché la libertà è quello di cui ha bisogno, quello che sogna di ottenere e cerca senza sosta. Steve non si sente libero perché è prigioniero di se stesso e della sua mente malata. Lui non è felice di essere quello che è, soffre quando fa soffrire la madre che ama profondamente, nonostante la malattia lo porti spesso ad avere nei suoi confronti atteggiamenti aggressivi e ambigui e a rivolgerle quotidianamente parole volgari ed inappropriate. E la madre è vittima del figlio, è prigioniera della sua follia che le impedisce di vivere una vita spensierata o addirittura di avere relazioni, che la costringe ad un senso eterno di ansia e paura, oltre che a laceranti sensi di colpa ed innumerevoli domande su cosa sarebbe meglio fare e su cosa potrebbe mai aver sbagliato. La stessa cosa vale per Kyla, che non si sente libera di esprimere quello che ha in testa perché non riesce a farlo, perché le parole non le escono in modo
fluido e chiaro. Proprio questo vuole trasmettere l'inquadratura: Dolan ha scelto di utilizzare un'inquadratura stretta perché i personaggi stanno stretti in loro stessi e nella realtà che li circonda e che mai riusciranno a cambiare, e noi, per tutta la durata del film, dobbiamo sentirci esattamente come loro: stretti, rinchiusi in un loop senza fine, in una vita che è sempre la stessa, che è statica e non porterà mai ad un progresso. 

(SPOILER): Ed infatti durante tutto il film sembra soltanto che avvengano dei miglioramenti che in realtà sono solo apparenti. Steve, dopo tanti sforzi, accetta che qualcuno lo faccia studiare, la madre inizialmente licenziata trova un lavoro, la loro vicina di casa, Kyla, iniziai a parlare in modo più fluido e trova finalmente degli amici con cui ridere e scherzare. Ma poi tutto precipita: lei riprende a balbettare ed è costretta ad andare via e ad abbandonare non solo le persone alle quali si era così profondamente affezionata, ma anche quella che per lei era diventata quasi una missione, ovvero l'istruzione di Steve, quell'unica attività che le permetteva di uscire di casa e di avere un contatto con qualcuno che non fosse il marito o la figlia, quell'unica attività che la faceva sentire una donna nuovamente realizzata e che le dava la possibilità di continuare a fare ciò che più ama fare: insegnare. 
E c'è anche Diane, che finalmente era riuscita a farsi notare da un uomo che poteva risolvere la sua disperata situazione famigliare, almeno sul piano economico, e ridarle sicurezza in se stessa riempiendola di tutte quelle belle parole sul suo aspetto al quale lei ormai da tempo non credeva più, e che però, poi, fugge. E Steve che per un momento sembra quasi essere guarito ed aver trovato la serenità che tanto cercava in due persone che gli vogliono bene e lo accudiscono, ma che alla fine riprende ad essere quello che è sempre stato e ritorna in ospedale.
È come se "mommy" ci desse ad un certo punto la speranza che le cose per tutti stiano migliorando, facendoci quasi credere che possa addirittura esserci un lieto fine, soprattutto nel momento in cui ci presenta quella bellissima scena (caratterizzata da immagini confuse e sfocate che si sovrappongono velocemente, senza lasciarci il tempo di metterle bene a fuoco e di assimilarle: Un turbinio di immagini compresse in uno strettissimo spazio, posizionate a formare quasi un collage di foto su una piccola parete quadrata, che compaiono e scompaiono con la stessa velocità con cui appaiono i pensieri nella mente di chi è confuso) con la quale ci mostra le speranze di Diane che sogna ad occhi aperti un futuro migliore per Steve, per lei e per Kyla: una scena equivoca, carica di pathos, che per un momento ci fa gioire e subito dopo ci riporta alla realtà cruda e spietata dei fatti narrati, svelandoci che ciò per cui abbiamo solo un secondo prima gioito, altro non era che il desiderio irrealizzabile di una madre disperata. O anche in quell'altra scene, l'ultima, in cui Steve chiama Diane al telefono e le rivolge delle dolcissime parole, preoccupandosi poi di aver usato quelle giuste e che ci dà l'illusione di essere ormai guarito del tutto, ma che qualche secondo dopo, non appena i dottori gli danno fiducia e lo liberano dalla camicia di forza in cui era stato costretto, scappa, facendoci ricredere, lasciandoci intuire, senza però mostrarcelo o dircelo chiaramente, che non ci sarà mai per lui un lieto fine, un modo per riscattarsi e cambiare. Questa storia è una storia statica: i personaggi non compiono alcun progresso, ti fanno solo sperare, in vano, che un miglioramento possa avvenire: La loro storia è una storia senza fine che si ripete in eterno e le loro sofferenze sono destinate a non terminare mai, neanche alla fine del film che, non a caso, presenta un finale aperto, ma facilmente intuibile. (FINE SPOILER)

Steve, Kyla, il regista Dolan, Diane.
Se l'obbiettivo di Xavier Dolan era quello di raccontarci una, anzi più storie, di grande dolore e di farci quasi patire per tutta la durata del film quella stessa sofferenza che vivono i personaggi in cui è impossibile non immedesimarsi, direi che c'è riuscito perfettamente non solo attraverso la scelta di attori che mettono i brividi per il modo naturale ed intenso in cui recitano, ma anche attraverso l'uso di un'inquadratura che rispecchia perfettamente le emozioni di cui il film è un concentrato e di musiche che, nonostante non siano originali, sono inserite al suo interno in modo perfetto, quasi fossero nate con e per esso. 



 
 
 
Vi lascio il trailer:
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Se non l'avete ancora visto, vi consiglio assolutamente di guardare mommy perché, credetemi, è un film che vi rimane per sempre dentro. 
 
 
 
 
 
 
 
 
Carlotta.

giovedì 7 luglio 2016

Movie Addicted: Recensione di "Perfetti sconosciuti"

Salve a tutti. Il film di cui leggerete la recensione oggi è "perfetti sconosciuti", diretto e sceneggiato da Paolo Genovese.



 
 



Ho deciso di recensire proprio questo film perché, a differenza di molti altri che ho visto recentemente, questo, mi è sì molto piaciuto, ma mi ha anche parecchio colpito. Innanzitutto mi ha colpito per la tematica estremamente interessante e poco esplorata dal cinema italiano (anzi, per nulla esplorata, specie dal cinema italiano degli ultimi anni o perlomeno non in un modo così diretto e pungente, direi quasi accusatorio, di denuncia totale), per la cura con cui è stata scritta la sceneggiatura (che non annoia ma anzi mantiene viva l'attenzione degli spettatori dall'inizio alla fine) e per la bravura degli attori (elemento fondamentale ma che ho ormai rinunciato a pretendere dai film italiani).

"Perfetti sconosciuti" mette in scena uno tra i problemi attuali più gravi della società del ventunesimo secolo e lo fa attraverso sette personaggi e in modo più specifico attraverso le loro vite (apparentemente perfette ma in fondo basate su un'enorme menzogna) che "tale problema", dopo aver a lungo supportato, distrugge. Questo film parla della tecnologia, o meglio degli effetti deleteri che spesso e volentieri essa ha e dell'influenza che esercita, attraverso il suo più comune rappresentante, il cellulare, sulle persone anche adulte.
Eva e Rocco decidono di invitare a casa loro, per una cena, i propri migliori amici: Cosimo e Bianca, Lele e Carlotta, e Peppe. Quando i sette si siedono a tavola per la prima parte della cena, tutto sembra trascorrere nel più normale dei modi tra grasse risate, innocenti prese in giro e ricordi dei vecchi e bei momenti trascorsi insieme durante la giovinezza. Ma ad interrompere la quiete di una serena serata e quella altrettanto serena delle vite di tutti i personaggi, arriva ad un certo punto lui: il CELLULARE. Eva, stufa di come questo debba essere una presenza costante durante qualsiasi momento della giornata, volendo forse sfidare il marito e gli amici a rivelare i propri segreti che, era sicura, fossero contenuti nei rispettivi cellulari, propone ai commensali di poggiare i telefoni sul tavolo in modo che tutti potessero leggere i messaggi di tutti e che se qualcuno avesse ricevuto una telefonata durante quelle ore, tutti l'avrebbero potuta ascoltare. Gli amici, inizialmente titubanti, alla fine accettano di giocare forse convinti dall'originale iniziativa o più probabilmente per non destare sospetti e fingere di non avere nulla da nascondere. Da questo momento in poi, poggiati i cellulari sul tavolo, una alla volta le menzogne di tutti i personaggi verrano piano piano smascherate, alcune dal messaggio di un amante, altre dalla telefonata di un gioielliere o da quella di un collega di lavoro. Ed ecco che la storia, da comica, diventa sempre più tragica.
 
 Il film è come diviso in due parti: in quella iniziale, caratterizzata da scherzi e risate e in quella finale, caratterizzata dal crollo di ogni bugia e di conseguenza di ogni rapporto tra i vari personaggi che al termine della serata si ritroveranno ad uscire da casa di Eva e Rocco delusi, disperati, arrabbiati gli uni con gli altri ed ognuno anche con se stesso. Ecco il primo di tanti aspetti che ho apprezzato davvero molto di questo film: il suo essere una commedia e al tempo stesso una tragedia, la presenza di elementi comici e drammatici perfettamente equilibrati tra di loro e che ti fanno ora sorridere ora riflettere e talvolta anche imprecare contro i personaggi che anch'essi, come lo stesso film, hanno una natura duplice, presentandosi positivi e al tempo stesso negativi: positivi all'inizio, negativi alla fine. Personaggi né buoni né cattivi insomma, ma reali, umani. Le due cose che però più di tutte ho apprezzato e che a mio avviso rendono il film particolare e per questo molto interessante, sono lo spazio e il tempo: l'intera vicenda è svolta, per lo più, all'interno di un'unica casa e per la maggior parte all'interno di una sola stanza, attorno ad un tavolo ed il tempo in cui avviene è breve: la storia inizia e si conclude in poco meno di tre ore, la durata minima di una cena. E nonostante tutto questo, il film non annoia, non stufa ed i dialoghi sono così ben articolati da non lasciarti distrarre neanche per un secondo, cosa che non è facile avvenga in un film in cui l'ambiente rimane quasi del tutto invariato.
Per non parlare poi della tematica che, come ho già detto, oltre ad essere originale e davvero ben affrontata, è anche estremamente interessante. Lo scopo del film è quello di far aprire gli occhi ai giovani e non (ho amato a questo proposito, anche la scelta di far agire dei personaggi adulti piuttosto che degli adolescenti, scelta che secondo me sarebbe stata più automatica essendo l'argomento principale proprio la tecnologia che, come sappiamo, conta le sue maggior vittime tra i ragazzi. Ma anche la scelta di utilizzare come protagonisti persone adulte non è casuale, bensì voluta e accuratamente studiata per farci capire come la tecnologia abbia in realtà influenzato tutti, nessuno escluso e come possa essere un pericolo tanto per i più piccoli quanto per i più grandi) riguardo l'uso scorretto del cellulare che è indubbiamente uno strumento utile, ma che può anche diventare uno strumento di distruzione per individui e famiglie intere.
 
Il cellulare in "perfetti sconosciuti" viene originalmente presentato non tanto come siamo soliti definirlo, ovvero come un qualcosa che crea dipendenza, ma come una sorta di cassaforte in cui le persone nascondono i loro segreti più preziosi quasi fossero dei gioielli, certi di come, grazie ad un segretissimo codice di cui solo il legittimo proprietario del telefono è a conoscenza, questi possano rimanere per sempre al riparo da orecchie, anzi da occhi indiscreti (perché oggi, i segreti, non si raccontano sottovoce, all'orecchio del proprio migliore amico ma si scrivono sulle note del proprio cellulare o vengono svelati attraverso contatti, messaggi, chat o numeri telefonici). Questo film, infatti, denuncia solo in parte l'uso scorretto che ognuno di noi decide di fare del proprio cellulare, denunciando invece in modo lampante il cellulare stesso come oggetto nella sua funzione di "scatola nera" delle nostre vite, di cassaforte, appunto: quella cassaforte che per il solo fatto di esistere come tale ci autorizza, in modo inconscio, a nascondere i nostri segreti o a compiere determinate azioni sicuri di come tanto, qualunque cosa facciamo, giusta o sbagliata che sia, possa tranquillamente essere tenuta segreta. Nessuna pietà, quindi, per un tale spregevole oggetto che qui viene dipinto come diavolo che tenta le persone cullandole nell'utopia di una vita in cui tutto è semplice attraverso un solo click, persino mantenere i rapporti con un amante o chiedere consigli al padre senza che la madre lo venga a sapere: una sorta di vita in cui le persone si sentono quasi autorizzate a mentire grazie alla consapevolezza di come farlo sia così facile e farsi scoprire così difficile. Se legalizzare la droga, per molti, spingerebbe le persone a farne più uso, allora secondo il regista, il cellulare spinge le persone a mentire, a crearsi una doppia vita, a tradire, a nascondere anche le bugie più semplici ed innocenti.
 
Ho adorato "perfetti sconosciuti" propio per la visione innovativa e, ahimè, tremendamente veritiera che propone della tecnologia e per il modo in cui un tale tema, così particolare e delicato, sia stato egregiamente reso attraverso attori letteralmente da brividi per il modo di recitare, per i dialoghi mai scontati o banali e l'ambientazione originale che, a mio avviso, si addice in modo impeccabile al tema stesso del film: la tecnologia, l'uso del cellulare o quello del computer, creano sedentarietà, ti permettono di fare qualunque cosa con il solo gesto di un dito e per usare questi due strumenti non c'è alcun bisogno di uscire di casa o anche soltanto di alzarsi dal divano, così come, per parlare di un tale argomento non c'era alcun bisogno di far muovere i personaggi troppo spesso: vederli seduti attorno ad un tavolo è più che sufficiente ed anzi rende ancora meglio l'idea attribuendo persino maggiore realismo alle vicende. Per non parlare poi del finale, assolutamente imprevedibile, che ti fa sorridere e tirare un sospiro di sollievo ma allo stesso tempo anche quasi arrabbiare: che è tragico ma sicuramente, in un certo senso, meno tragico di come ci si aspetta o di come, almeno io, me lo aspettavo dopo tutta la confusione creatasi a partire da circa la metà del film.
 
Per concludere: di "perfetti sconosciuti" mi è piaciuto proprio tutto: la recitazione, la sceneggiatura, il genere tragico e comico allo stesso tempo, l'ambientazione, l'idea, la tematica ma sopratutto l'originalità con cui essa è stata affrontata ed insieme anche l'originalità di un film mai visto prima d'ora: un film paurosamente veritiero ed attuale anche nell'affrontare, oltre al tema della tecnologia, anche quello dell'omosessualità e del rapporto genitore-figlio; un film che non ha paura di sbatterti in faccia la realtà e di farlo nel modo crudele in cui essa si presenta a noi tutti i giorni: un film senza filtri, che va oltre gli stereotipi e raggiunge l'originalità sfiorando quasi la perfezione.
 
 Il mio voto per "perfetti sconosciuti" è un bel 9 pieno. Complimenti a Paolo Genovese e che questo film possa essere di buon auspicio per una tanto attesa rinascita del cinema italiano o almeno d'ispirazione per la creazione di altri prodotti simili piuttosto che dei soliti cinepanottoni o dei soliti film demenziali di cui il cinema italiano è purtroppo pieno.
 
 
 
 
 
E voi avete visto questo film? La pensate allo stesso modo? Fatecelo sapere che siamo curiose ;)
 
 
 
 
 
-Carlotta

giovedì 28 aprile 2016

Recensione del film "The Danish Girl" di Tom Hooper: benvenuti in Movie Addicted!

 Hello my readers! Qui è Virginia che vi scrive, per annunciarvi graaandi cose, o meglio solo una, ma spettacolare... pronti?
3... 2... 1... Una NUOVA RUBRICA
MOVIE ADDICTED
Yes readers, da oggi "I libri: il mio passato, il mio presente e il mio futuro" parlerà anche agli appassionati di cinema e serie televisive, pechè sappiamo bene cosa significa essere fun e perdere la testa magari per un personaggio, che sia poi fatto di parole o di pellicola non fa distinzione.
Vi presento anche l'ospite che scriverà per noi: la sorella di Ginny! Sono sicura che amerete le sue recensioni, ed ecco la prima!

Salve a tutti. Il film di cui leggerete la recensione oggi è "The Danish Girl" di Tom Hooper (regista, tra gli altri, de "I miserabili" e "Il discorso del Re", per il quale si è aggiudicato l'Oscar nel 2011). Perché? Innanzitutto perché è un film davvero molto bello che ho visto due volte ed amato la seconda volta come la prima, e poi anche perché vi recita il mio attore preferito: Eddie Redmayne (famoso sopratutto per il ruolo di Stephen Hawking nel film "La teoria del tutto" che gli ha permesso di vincere la statuetta d'oro come migliore attore, agli Oscar dell'anno scorso.)
Ho deciso di rivedere questo film in modo da potermi concentrare, la seconda volta, sui particolari che inevitabilmente sfuggono quando si guarda un film che non si è mai visto prima, più che sulla trama generale e la successione degli eventi che già conoscevo. E poi anche perché, durante la notte degli Oscar (Eddie Redmayne, ovvero Einar/Lili nel film, è stato candidato come migliore attore anche quest'anno) ho sentito definire "The Danish girl" come un "film di sopravvivenza alla società", definizione che sin da subito mi ha lasciato un po' spiazzata e che ho immediatamente pensato non fosse del tutto giusta. Ho quindi deciso di guardare una seconda volta il film anche per questo: volevo essere certa di aver colto bene quello che è, a mio parere, il suo reale significato in modo da poter confermare l'idea che mi ero fatta già dopo la prima visione o di potermi, eventualmente, ricredere. Alla fine non mi sono affatto ricreduta. Il film non racconta di nient'altro se non della vita del primo uomo ad aver subito l'operazione per cambiare sesso. Su questo si concentra la storia: semplicemente sulla scoperta (avvenuta all'improvviso e per puro caso, partendo da un innocente gioco) da parte di Einar della sua reale sessualità. Scoperta che si tramuta in un lento e doloroso processo di presa di coscienza della diversità che lo caratterizza all'interno, facendo a pugni con il suo aspetto fisico e che ha fatto nascere dentro e sopratutto fuori di lui una persona diversa, quella persona che era in realtà presente sin dall'inizio ma della quale scopre, indossando collant e scarpe col tacco, per la prima volta l'esistenza; del faticoso processo di accettazione (che vede coinvolta in particolar modo la moglie, Gerda, ma anche molti altri personaggi e sopratutto lo stesso Einar) della propria natura, fino a quel momento mascherata o forse repressa ed ignorata, avendole attribuito poca importanza quando essa cercò di manifestarsi, durante l'infanzia del protagonista.
Il film non si concentra quindi sui pregiudizi della società di quel tempo, ma solo sulla storia di un ragazzo che scopre di non essere tale e che lotta prima di tutto con se stesso per arrivare ad accertarsi e a cambiarsi. Se ci fate caso, infatti, l'intero film è caratterizzato dall'azione di personaggi prevalentemente positivi che (particolare che mi ha effettivamente sorpresa) non giudicano Lili, ma al contrario la supportano e le stanno accanto, assecondandola, mostrandole affetto e totale comprensione, a partire dalla moglie che scopre, dopo anni di matrimonio, di amare un uomo che in realtà è una donna e che è costretta, pertanto, a separarsi da lui, ma che decide di farlo senza alcun rancore per il bene della persona che ama. 
Abbiamo poi la figura di Ben Whishaw, ragazzo gay che si innamora di Einar per ciò che è, nonostante conosca la sua vera personalità e sia quindi destinato a non poterlo mai avere, e quella grandiosa di Hans Axgil, suo amico d'infanzia, che rivela di non aver mai amato nessuno quanto lui e l'altra parte di lui; che ricompare dopo anni nella sua vita deciso ad aiutare, con discrezione e delicatezza, la persona che è diventata, nonostante sia un'altra rispetto a quella che aveva conosciuto. E come non parlare delle infermiere dell'ospedale in Francia che riconoscono l'identità di un uomo mascherata da una parrucca e dal trucco sul suo volto, e che nonostante tutto, a quell'uomo travestito da donna sorridono dolcemente, così come a lui sorride amorevolmente anche la donna incinta con la quale si ritrova a parlare dopo il suo primo intervento, o delle ragazze della profumeria, che lo stimano ed apprezzano e che, pare, abbiano addirittura fatto di lui/lei quasi il leader del gruppo. 
E sarebbe impossibile, a questo proposito, non nominare anche Ulla , colei che chiama per la prima volta Einar con il nome di Lili e sembra essere la prima ad accorgersi di quell'altra persona che vive in lui: fedele amica di Gerda e famosa ballerina, si può dire dia inizio al processo di trasformazione di Einar e al tempo stesso ne determini la "fine", consigliandogli di rivolgersi ad uno specialista perché possa diventare a tutti gli effetti chi realmente è. In un quadro simile mi sembra assolutamente da scartare la tematica della sopravvivenza alla società. Essa avrà sicuramente caratterizzato la vita di Einar, ma pare evidente che il regista abbia voluto che il film prendesse una piega diversa, concentrandosi su quella che è stata la lotta interiore dei singoli personaggi per accettare l'enorme cambiamento che si ritrovano a vivere, piuttosto che su quella che essi hanno dovuto operare contro il mondo, facendo sì un'accenno inevitabile di tale "lotta" (peraltro in un unica scena, ovvero quella in cui due ragazzi francesi picchiano Lili definendola una femminuccia), ma lasciandola sullo sfondo, in una posizione marginale. 
No, la sopravvivenza narrata nel film è piuttosto una sopravvivenza che ogni personaggio attua con se stesso, non con gli altri (ricordiamo la scena in cui Einar dice di aver pensato più volte di uccidersi, ma di non averlo fatto per paura di uccidere ancheLili). Ed è normale che molti dei medici di quel tempo, Einar è vissuto negli anni venti, gli abbiano dato del folle e abbiano pensato che fosse uno psicopatico da dover curare, ma ciò non per cattiveria, bensì per ignoranza. Einar È la prima persona ad essersi sottoposta all'operazione per cambiare sesso e il medico che lo opera dichiara apertamente di essere stato preso per pazzo anche lui, per il grande esperimento che intendeva provare a fare e tutto questo per il semplice fatto che il mondo, in quegli anni, non sapeva ancora cosa fosse la transessualità ed ancora di meno lo sapeva la scienza. Le reazioni dei medici, pertanto, per quanto cattive possano sembrare a noi oggi, allora erano più che comprensibili e più che giustificabili se accanto ad esse, che sono normali reazioni di uomini di scienza che tentano di spiegare sempre tutto attraverso la ragione, poniamo le reazioni di molte altre persone come quelle di cui ho palesato prima. Questo, quindi, non è un film "di sopravvivenza alla società", che al contrario reagisce anche piuttosto (ed inaspettatamente) bene alla novità di un uomo-donna con cui dover fare i conti: "The Danish girl" è invece un film che racconta il dramma di un uomo che improvvisamente scopre di voler essere una donna e matura, lentamente e faticosamente, la decisione di sottoporsi ad un'operazione mai tentata prima, rischiando la vita pur di guadagnare la sua vera identità. Dramma che viene meravigliosamente reso ed enfatizzato dalle lunghe e continue inquadrature dei volti dei protagonisti e da quelle meravigliose dei paesaggi e dei luoghi in cui si svolge la storia, dalle numerose scene mute che lasciano spazio solo ai pianti e ai singhiozzi, dalle poche ma efficaci parole pronunciate e spesso sussurrate e dall'incredibile bravura dei due attori protagonisti (entrambi candidati agli Oscar): dramma che raggiunge il culmine nella scena che mostra Einar per la prima volta completamente nudo davanti ad uno specchio, faccia a faccia con un corpo che non gli appartiene, a dover fare i conti con la persona che non sente di essere e che si tramuta in un film che, nella sua apparente lentezza e staticità, è in realtà un continuo crescere di emozioni contrastanti che continuano a cambiare e diventano sempre più angoscianti fino alla scena finale, probabilmente la più triste e al tempo stesso bella e significativa dell'intero film.

Una bellissima recensione per un battesimo con i fiocchi! Credo che con  "The Danish Girl" nessuno può più mettere in dubbio la bravura di Redmayne, che ha interperato il ruolo in maniera subline. Voi cosa ne pensate readers?
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Virginia